Storia dell’Ordine cistercenseGli elementi fondamentali della riforma cistercenseLa riforma cistercense era, soprattutto, un movimento di rinnovamento spirituale. Alla esposizione narrativa degli eventi delle origini deve seguire quindi una analisi degli ideali che ispiravano il piccolo gruppo di monaci che fondò Cîteaux. La prima tappa di questo sviluppo di idee ebbe luogo a Molesme. Durante prolungati e talora animati dibattiti, i futuri fondatori di Cîteaux ebbero ampie possibilità di chiarire le loro intenzioni e di ridurle a una formula molto semplice e pratica: il ritorno alla Regola di san Benedetto. L’applicazione di questi principi alle condizioni della vita di ogni giorno ebbe luogo a Cîteaux sotto il governo di sant’Alberico, sebbene il processo somigliasse piuttosto a una improvvisazione progressiva e quotidiana più che ad una legislazione consapevole. Infatti, non ci sono indicazioni per sapere se sia Roberto che Alberico intendessero fare altro che assicurare la vita della comunità nascente e riformata con gli stessi mezzi con i quali moltissimi altri monasteri simili avevano cercato di sopravvivere. Il movimento di espansione attraverso le nuove fondazioni indusse Stefano Harding a fissare per iscritto gli elementi fondamentali delle osservanze di Cîteaux e ad assicurare la coesione della congregazione monastica che si espandeva sotto i suoi occhi, con la determinazione del nucleo di una struttura istituzionale. Il successo i aspettato di Cîteaux fece nascere la gelosia non solo di Molesme, ma anche del potente Cluny, tanto che ne seguì un dibattito che venne pubblicizzato su larga scala, che toccò ogni sfaccettatura della organizzazione nascente. Un programma ben precisato, una conduzione abile, una coesione interna e un senso di vittoria riportato su qualsiasi opposizione, per quanto forte, furono gli elementi che diedero origine e caratterizzarono il primo vero e proprio “ordine” medioevale, una organizzazione visibilmente distinta fra le molte autonome o vagamente affiliate conglomerazioni di case benedettine. Agli storici che lavoravano circa una cinquantina di anni fa, il compito di esporre questa storia appariva semplice. Si credeva universalmente che la narrazione fondamentale degli inizi di Cîteaux, il Piccolo Esordio, non solo presentasse i fatti e gli elementi essenziali della dottrina con una accuratezza incontestabile, ma che fosse stato composto, direttamente, dalla penna di Stefano Harding, uno dei fondatori. Parallelamente, la Carta di Carità, costituzione dell’Ordine nascente, era considerata come la traduzione organica dei principi che avevano dato la possibilità all’abate Stefano di attuare il suo programma con un risultato così duraturo. In questa visione tradizionale delle fonti, la vera ragion d’essere di Cîteaux era vista nell’Osservanza rigorosa, stretta, possibilmente letterale della Regola di san Benedetto. La Carta di Carità sarebbe stata, in questa ottica, la guida pratica per la ricostruzione di una vita monastica basata su un medesimo contesto ideologico. Tuttavia, a partire dal 1930, un esame più accurato dei manoscritti conduceva a una rivalutazione estesa di tutto ciò che era stato scritto fino allora sugli inizi della vita cistercense. La scoperta dell’Esordio di Cîteaux, uno scritto più breve ma più antico del Piccolo Esordio, costituito dalla relazione degli eventi, gettava seri dubbi sulla attendibilità di questo documento. Si scopri che l’autore del Piccolo Esordio non era stato Stefano Harding, ma un monaco della generazione di san Bernardo, che lo aveva pubblicato un po’ dopo la morte di santo Stefano, avvenuta nel 1134. Sarebbe stato composto da un Cistercense come una “Carta Bianca” per difendere la legittimità della fondazione di Cîteaux contro le accuse dei monaci cluniacensi, i quali sostenevano che il “Nuovo Monastero” era stato stabilito ed eretto senza le dovute formalità canoniche. Quest’opera quindi sarebbe stata compiuta per dimostrare “con quanta canonicità” fosse stata realizzata la fondazione. Tuttavia l’autore avrebbe raccolto e trascritto una certa serie di documenti alcuni dei quali, compresi i famosi Statuti di Alberico, mancano delle necessarie caratteristiche che ne fondano l’autenticità. Il riferimento costante alla Regola di san Benedetto, soprattutto negli Statuti, era stato inserito con l’ovvia finalità di creare una parvenza di legalità inappuntabile. L’affermazione dell’autore anonimo, secondo cui l’arrivo provvidenziale di san Bernardo avrebbe salvato Cîteaux dalla estinzione, sostiene l’ipotesi che tale autore fosse appunto un giovane monaco, attratto alla vita cistercense dalla personalità così autorevole del santo. In modo analogo, le ricerche più recenti sulla Carta di Carità rivelano che non si trattava del frutto delle più arcaiche disposizioni degli abati dell’Ordine, ma di un testo legislativo entrato in vigore soltanto dopo alcuni decenni di evoluzione. La stesura avrebbe avuto inizio con Stefano Harding, ma la natura esatta del testo primitivo, ancora inedito e introvabile fino ad oggi, così come la data e la portata delle evoluzioni successive, sono ancora oggetto di discussione. Dato che i manoscritti che conosciamo e che danno un certo affidamento non sono sufficienti per chiarire le molte questioni sorte in questi ultimi decenni, è ancora impossibile ricostruire l’immagine antica e tradizionale del primo Cîteaux con quadro chiaro ed esatto, tracciato con l’aiuto dei metodi storici moderni. Comunque, quasi per compensare la delusione di questi risultati, le ricerche più recenti hanno cercato di fare più luce sui movimenti monastici contemporanei e sull’impatto della vita eremitica in particolare. E aumentata così la stima e la valorizzazione delle fonti non Cistercensi, è stata sottolineata l’importanza del conflitto tra Cîteaux e Cluny, ed è stato analizzato tutto ciò che concerne i problemi giuridici della nuova fondazione, nel contesto della legge canonica del dodicesimo secolo. Dopo aver dato sufficiente spazio a queste considerazioni, rimane comunque vero che i fondatori di Cîteaux intendevano tornare a una interpretazione più stretta della Regola. I loro sforzi non sfociarono in una mera restaurazione della vita monastica del sesto secolo, ma nella introduzione di una vita fortemente influenzata dagli ideali del monachesimo pre-benedettino. La ricerca di una più grande solitudine, povertà e austerità costituirono certamente i potenti incentivi nelle scelte di Roberto e dei suoi compagni, così come animavano le innumerevoli abbazie della fine dell’undicesimo secolo. Le caratteristiche tipiche di Cîteaux sono messe in risalto dall’immediato confronto con Cluny. Nella regione della Borgogna l’appello alla disciplina della vita eremitica all’interno di una comunità monastica costituì una sfida allo stile di vita accettato ovunque in quello che era il cuore dell’“impero cluniacense”. Fin dall’inizio, i monaci fondatori di Cîteaux dovettero assumere quasi per forza un atteggiamento di autodifesa. La tattica più efficace per parare le accuse di essere innovatori strani e malvisti, era il rifarsi alla Regola come ad uno scudo. Roberto e i suoi monaci insistevano nell’affermare che essi non avevano altro scopo né desideravano altra novità se non quella di ritornare a una vera osservanza della Regola di san Benedetto, codice così venerato e venerabile per tutti i monaci. Ma, facendo questo, i primi Cistercensi istintivamente sottolineavano quegli elementi della Regola che meglio si adattavano con il loro stile di vita eremitica, soprattutto il capitolo 73, dove il legislatore afferma con molta modestia che la sua regola era stata composta per dei principianti; coloro che desideravano aspirare a più alta perfezione di vita monastica dovevano rivolgersi agli insegnamenti dei “Santi Padri”, soprattutto alle opere di san Basilio (330-379) e di Giovanni Cassiano (360-435), ricche di riferimenti alle vite eroiche degli anacoreti dell’Oriente. Accese dispute nacquero tra i due gruppi, come conseguenza del fatto che l’accordo fra la Regola e l’ascetismo di tipo eremitico sembrava non solo impossibile, ma indesiderabile ai monaci di Molesme. Le due fonti che danno sorprendenti dettagli sulla natura delle argomentazioni sono le cronache di Guglielmo di Malmesbury e Orderico Vitale: entrambi benedettini, entrambi osservatori attenti dei loro tempi, entrambi storici ben informati. Il passo delle Gesta Regum Anglorum opera di Guglielmo di Malmesbury redatta nel 1122-1123, che tratta di questo problema, venne composto con tutta probabilità a partire da fonti Cistercensi e si interessò soprattutto a Stefano Harding, mettendo a fuoco la sua figura. Il capitolo corrispondente della Historia Ecclesiastica di Orderico Vitale fu scritto circa dieci anni dopo e presenta con particolare attenzione le esortazioni di Roberto, così come se ne conservava il ricordo a Molesme. Non è necessario credere che né Stefano né Roberto abbiano parlato esattamente nel modo in cui vengono citati in queste fonti; ma, d’altra parte, non c’è motivo per dubitare che i problemi discussi fossero in realtà i problemi autentici che si dibattevano. Secondo Guglielmo di Malmesbury, Stefano, quando ancora era a Molesme, attaccava con vigore lo stile di vita basato sulle consuetudini di Cluny. Egli riteneva che la sola tradizione non fosse sufficiente per giustificarle. Sottolineava con forza che usanze ammissibili devono essere basate su di una regola e sostenute sia dalla ragione che dalla autorità; egli aggiungeva che questi requisiti erano espressi e incarnati nella Regola di san Benedetto. Quando gli oppositori persistentemente rifiutavano le innovazioni perché preferivano le usanze tradizionali” i futuri cistercensi raddoppiavano i loro sforzi per dimostrare che di fatto, ciò che essi si proponevano derivava da fonti ancora più antiche delle usanze cluniacensi, ed era questo il motivo per cui essi “scrutavano con tanta attenzione la Regola desiderando di non trascurarne neppure uno iota o un apice”. Anche Orderico Vitale riporta le stesse cruciali discussioni, ma presenta con attenzione speciale l’Abate di Molesme e i suoi monaci riluttanti. Nel suo libro, Roberto critica con forza le mancanze contro la povertà, l’abbandono del lavoro manuale, l’accettazione di titoli e di altri benefici ecclesiastici, sollecita e spinge i suoi sudditi ad “osservare la Regola di san Benedetto in ogni cosa, così che, seguendo le vestigia dei Padri, noi possiamo con fervore seguire il Cristo”. Roberto non distingueva con chiarezza le osservanze dei Padri del deserto e quelle presentate dalla Regola, ed egli accompagnava le sue esortazioni con frequenti riferimenti alle “vite esemplari dei Padri Egiziani”. I suoi oppositori si sforzavano di dimostrare che il modo di vivere dei padri del deserto non era più praticabile nelle loro circostanze storiche e dichiaravano la loro intenzione di aderire alle usanze ben radicate di Cluny, altrimenti sarebbero stati condannati dai loro confratelli, sempre e dovunque, come inventori dalle iniziative temerarie. La discussione termina allo stesso modo in cui anche Guglielmo di Malesbury la fa concludere: per evitare l’obbrobrio di essere giudicati degli innovatori, i fondatori di Cîteaux decisero di “osservare la Regola di san Benedetto alla lettera, allo stesso modo in cui i Giudei osservano la Legge di Mosé”. La discussione sulle osservanze della vita monastica scoppiò con maggiore forza dopo il 1124, quando san Bernardo lanciò un attacco su larga scala contro Cluny nella sua prima opera largamente diffusa, l’“Apologia” (Apologia ad Guillelmum). In quel tempo i Cistercensi avevano guadagnato una popolarità generale, mentre Cluny, sotto l’amministrazione turbolenta di Pons di Melgueil (1109-1122) aveva sofferto delle crisi abbastanza dure e imbarazzanti. I tempi erano allora maturi per una ardente contro-offensiva, mossa non solo contro Cluny, ma anche contro “gli antichi e secolari istituti inonastici”, simbolizzati convenzionalmente da Cluny. L’Apologia è la prova che meglio documenta come nel giro di un quarto di secolo molti Cistercensi erano giunti a credere che, usando parole di un monaco anonimo citato da Bernardo, essi erano “i soli monaci dotati di qualche virtù, più santi di qualsiasi altro, i soli monaci che vivevano in modo conforme alla Regola; per quanto riguardava gli altri monaci, questi erano soltanto dei trasgressori”. Un poco più avanti, nel medesimo testo, lo stesso monaco anonimo, ma cistercense, viene citato da Bernardo come un assertore che “tutti coloro che fanno professione secondo la Regola sono tenuti ad osservarla letteralmente, senza alcuna dispensa possibile”. Era ovvio, comunque, che l’osservanza rigorosa della Regola era solo uno degli elementi caratteristici di cui il nuovo Ordine poteva gloriarsi. Con il suo stile magistrale, san Bernardo metteva in netta contrapposizione i Monaci Neri, ricchi, pomposi, dalla vita agiata, con i Cistercensi, araldi di una nuova forma di vita monastica, seguaci in tutto e per tutto degli ideali che animavano la riforma gregoriana: poveri con il Cristo povero; vivendo con i frutti del proprio lavoro manuale, come gli apostoli; separati dal mondo e senza interesse per il mondo; austeri nel loro abbigliamento e in tutto ciò che usavano; parchi nel cibo e nella bevanda; senza pretese nelle loro abitazioni e costruzioni; semplici e austeri perfino nel loro servizio liturgico; prossimi all’eccesso solo nell’ascetismo. Pietro il Venerabile, il nuovo abate di Cluny (1122-1156) il cui primo compito fu quello di porre riparo ai danni causati dal suo predecessore, replicò con misura e dignità. Egli attutiva il colpo che accusava i cluniacensi dì essersi allontanati da alcune prescrizioni della Regola, sottolineando che l’essenza dell’insegnamento di san Benedetto consisteva nella carità e nella discrezione. Ben a proposito, egli riconosceva le splendide virtù dei Cistercensi, ed anche volentieri, ma rilevava ironicamente, che mancavano soltanto di umiltà. Il dibattito continuò ancora per decenni e produsse quasi una dozzina di pubblicazioni che esistono ancora. Uno degli ultimi, il Dialogo tra due monaci, (Dialogus duorum monachorum) scritto verso il 1155 da Idung di Prüfening, un Benedettino passato alla vita cistercense, fu il più ricco di dettagli, e, ricorse alla utilizzazione di due mezzi molto nuovi: il diritto canonico e la scolastica; il Dialogo è una lunga disputa tra un Cistercense e un Cluniacense, in cui le domande ingenue e le risposte inadeguate di quest’ultimo servono soltanto ad offrire delle occasioni al monaco cistercense per fare delle dissertazioni molto erudite su questioni che documentavano la superiorità dei Monaci Bianchi sui Monaci Neri. Il monaco cluniacense ripeteva le vecchie accuse di “instabilità” allundendo a Roberto e ai suoi seguaci che avevano abbandonato gli usi antichi e pieni di discrezione seguiti a Molesme per abbracciare le innovazioni così carenti di discernimento di Cîteaux. Il monaco cistercense definiva tali accuse come vere e proprie calunnie e sottolineava le caratteristiche di “antichità, discrezione e regolarità” della vita condotta a Cîteaux, a discapito delle abitudini di Cluny che non erano se non “superstizioni contrarie ai decreti della Chiesa, alle decisioni dei sinodi, persino alla santa Regola”. Invece, i Cistercensi “vivono secondo la Regola di san Benedetto, che promettono di osservare mediante i loro voti; essa è la legge data ai monaci da Dio attraverso la persona di san Benedetto, che è legislatore al pari di Mosè”. Il valore delle conclusioni dei dibattiti non può essere valutato soltanto dagli scontri verbali; ma un impegno così prolungato favorì moltissimo il consolidarsi di una solidarietà e compattezza in seno all’Ordine Cistercense. I Monaci Bianchi gustarono certamente l’euforia della vittoria quando lo stesso Pietro il Venerabile si levò a difendere molti punti della riforma cistercense tanto da tentare di introdurre qualcosa, verso la fine del suo governo, all’interno della sua abbazia. Il primo segno evidente dello sforzo dei cistercensi di tradurre i loro ideali in regolamenti e strutture di vita emerge in un insieme di venti paragrafi, i cosiddetti Capitoli. Alcuni di questi vennero con tutta probabilità aggiunti a una prima stesura della Carta di Carità e all’Esordio di Cîteaux, quando essi vennero presentati per l’approvazione al Papa Callisto II, nel 1119. In questi paragrafi si nota la prima allusione all’ammissione dei fratelli conversi, perché assistessero i monaci nel lavoro agricolo. Essi erano accolti, come i monaci, con il permesso del vescovo, “quali coadiutori indispensabili e fratelli, partecipi allo stesso grado dei beni spirituali e temporali del monastero, come i monaci”. Dopo un anno di noviziato essi emettevano la professione nella sala del Capitolo, ma non potevano aspirare ad essere ammessi al rango dei monaci di coro. Un altro paragrafo alludeva alle circostanze delle nuove fondazioni. Ognuna di esse doveva avere, oltre ad alcuni fratelli conversi, almeno dodici monaci, guidati da un abate, e doveva essere provvista dei libri liturgici necessari per l’ufficio. Tutte le Chiese dovevano essere dedicate alla Beata Vergine Maria e collocate in luoghi lontani dai villaggi e dalle città. Dopo la costruzione dei 1uoghi regolari” nessun monaco doveva più vivere al di fuori del chiostro. E, cosa più importante di tutte le altre, il testo stabiliva che “per preservare d’ora in poi tra le abbazie una unione indissolubile, è stato deciso per prima cosa che tutti i fratelli seguano la Regola di san Benedetto allo stesso modo, e da questa non devono allontanarsi neppure nelle questioni più piccole. Ne consegue che devono usare gli stessi libri per l’ufficio divino, che devono portare gli stessi abiti, ffiangiare lo stesso cibo; in una parola, gli stessi usi e costumi devono essere seguiti dovunque”. Il genere e la qualità degli abiti era descritta con gran cura, così come la semplicissima dieta alimentare, che escludeva carne e prodotti affini. I mezzi di sussistenza dei monaci dovevano derivare esclusivamente dal 1avoro manuale, dalla coltivazione della terra e dall’allevamento del bestiame”. Era stabilito con chiarezza che queste terre non dovevano essere situate vicino ai possedimenti dei secolari, sebbene non ci fossero regole sulla estensione delle proprietà dei monaci e si approvasse, di fatto, la costituzione di grange affidate ai fratelli conversi. Chiese, diritti di sepoltura, titoli, villaggi, servi, tasse, decime, quote sui forni o sui mulini e “altre cose simili contrarie alla autenticità della vita monastica” furono totalmente escluse come fonti di guadagno. Per sottrarsi a tentazioni di questo genere, i monaci non potevano impegnarsi in servizi parrocchiali o pastorali di nessun tipo, ma dovevano vivere in una perfetta separazione dal mondo. Gli affari inevitabili e i tramiti con i secolari dovevano essere assicurati dai fratelli conversi. Ogni ostentazione di ricchezza doveva essere evitata, anche nella progettazione o costruzione delle chiese, perfino nelle decorazioni interne e nell’arredamento. Dal 1119 fino al 1151 la riunione annuale degli abati, il Capitolo generale, specificò e precisò ancora più dettagliatamente questi regolamenti, aggiungendo un certo numero di punti nuovi e alla fine decretò la diffusione di un insieme di 92 paragrafi, detto Instituta generalis capituli (Statuti del Capitolo generale). In questo documento apparvero delle chiarificazioni di procedure o questioni di natura prettamente giuridica: la conduzione dei Capitoli generali, l’acquisizione dei privilegi; la forma delle visite regolari annuali; la punizione di alcune colpe; la procedura per l’elezione abbaziale; il rapporto con i vescovi; il modo di vivere di abati consacrati vescovi; l’accoglienza degli ospiti; il lavoro nello scriptorium, l’amministrazione delle grange; le regole sulle compra-vendite; il comportamento dei monaci in viaggio e l’assistenza agli infermi. E infine alcune decisioni in materia liturgica e, norma significativa, l’esclusione dei bambini dai recinti dei monasteri. Quasi contemporaneamente, vennero alla luce altre due serie di direttive, strettamente collegate alle precedenti. In una venivano trattate questioni comuni di liturgia (Ecclesiastica Officia); e nella seconda, si esponevano i regolamenti sul modo di vivere dei fratelli conversi (Usus Conversorum). Queste due collezioni, insieme agli Statuti, formavano il manuale fondamentale della vita quotidiana degli individui e delle comunità, le Consuetudines, il “Libro degli Usi”. Non c’era nulla di radicalmente nuovo in queste collezioni: il materiale contenuto era attinto sostanzialmente alle fonti monastiche del secolo precedente e una buona parte, agli usi di Molesme e di Cluny. Tuttavia, la loro relativa semplicità e concisione, la possibilità che offrivano di essere applicati ovunque, la loro terminologia precisa e densa possono essere considerati come caratteristiche cistercensi. Piani elaborati per osservanze uniformi sarebbero rimasti inefficaci e irrealizzabili senza la costituzione di una solida struttura che tenesse insieme il numero sempre crescente di abbazie cistercensi. La Carta di Carità fu lo strumento che raggiunse tale scopo, un documento attribuito, secondo la tradizione, a Stefano Harding. Come già è stato affermato sopra, il terzo abate di Cîteaux può essere considerato di fatto come l’iniziatore dell’abbozzo della Carta di Carità, ma passarono almeno cinquant’anni prima che potesse essere definita in tutti i suoi elementi. La prima citazione di questo documento risale a un atto non datato riguardante la fondazione di Pontigny, steso poco dopo l’invito rivolto dal Vescovo Ubaldo di Auxerre agli “amanti della santa Regola” a installarsì nella sua diocesi. Verso lo stesso periodo (1111), come afferma tale atto, il medesimo Vescovo, insieme al capitolo dei suoi canonici, accettò in ogni punto la validità e l’unanimità della Carta di Carità, che era già stata composta e confermata tra il Nuovo Monastero e le abbazie recentemente da esso fondate. Il testo di questa “primitiva” Carta di Carità non è stato purtroppo ancora ritrovato e così il suo contenuto non può essere stabilito con certezza. Si ritrovano altre due citazioni di una “costituzione” nella bolla di Callisto II redatta nel 1119, ma pongono problemi di natura diversa. Le ricerche più recenti hanno fatto venire alla luce due versioni della. Carta di Carità, ed entrambe sembrano essere, a prima vista, amplificazioni del testo così detto Il primitivo”, entrambe scritte, con ogni probabilità, poco prima o poco dopo il 1119. Una reca il titolo di Summa Cartae Caritatis, e l’altra è comunemente nota come Carta Caritatis Prior. Ma rimane ugualmente incerto quale delle due versioni venne approvata in una Bolla successiva, promulgata da Eugenio III nel 1152. Si può affermare con sicurezza soltanto che dopo molti ritocchi, la stesura finale della Carta di Carità, la Carta Caritatis posterior venne alla luce tra il 1165 e il 1190. L’importanza principale della Carta di Carità, nella sua stesura finale, così come la si conobbe per secoli, consiste in una felice sintesi, e in un armonico equilibrio realizzato tra l’autorità centrale e l’autonomia della comunità locale, evitando così il doppio pericolo di un controllo troppo stretto, di tipo cluniacense, o di una insufficiente coesione, che aveva compromesso le promettenti riforme delle nascenti congregazioni monastiche. Cîteaux rimaneva il cuore e il centro del nuovo Ordine, e il suo abate era il simbolo vivente dell’unità. Ma in netto contrasto con Cluny, l’abate di Cîteaux non poteva esercitare illimitati poteri di governo. L’autorità suprema risiedeva nella riunione annuale di tutti gli abati cistercensi, il Capitolo generale, che si riuniva tradizionalmente a Cîteaux il 14 di settembre, festa della esaltazione della santa Croce. Sotto la presidenza dell’abate di Cîteaux, il primo dovere del Capitolo era quello di mantenere una uniforme disciplina monastica al più alto livello possibile, così che tutti “potevano vivere insieme nel vincolo della carità sotto una sola regola e mettere in pratica le stesse osservanze”. Di conseguenza, si attendeva dal Capitolo che ponesse fine agli abusi, che punisse i colpevoli di qualsiasi tipo di trasgressione, e che, occasionalmente, apportasse degli emendamenti alla nuova legislazione o delle modifiche temporanee per circostanze particolari. I mezzi per una effettiva esecuzione di tali leggi e del controllo delle comunità locali erano costituiti dalla visita annuale di ogni abbazia da parte dell’abate che l’aveva fondata. Le visite degli “abati-padri” erano in funzione della correzione degli eventuali abusi o, in casi estremi, erano indirizzate alla riconduzione in sede di Capitolo generale delle informazioni sulle case, perché questo potesse autorizzare la messa in opera di ulteriori misure per restaurare la disciplina. Cîteaux, che non aveva una “casa madre” doveva essere visitata” simultaneamente dagli abati delle sue prime quattro case figlie, cioè dagli abati di La Fertè, Pontigny, Clairvaux e Morimond, che in seguito vennero definiti collettivamente come i proto-abati. Ma nonostante le molteplici forme di controllo, tuttavia, ogni abate era autonomo, e governava liberamente la propria comunità senza indebite interferenze este rne, fintanto che il suo monastero restava all’interno dei regolamenti prestabiliti. Oltre a queste precisazioni di tipo costituzionale, la Carta di Carità sollecitava un aiuto mutuo in tempi di necessità di tipo materiale o in casi di emergenza; incoraggiava l’ospitalità; regolava i diritti diprecedenzatra gli abati; stabiliva le procedure delle elezioni abbazìali e specificava misure di precauzione o di correzione contro abati negligenti o indegni. Bisogna tuttavia sottolineare ancora che gli aspetti appena messi in luce appartengono, propriamente, soltanto alla redazione finale della Carta di Carità, mentre le redazioni più antiche ponevano l’accento su aspetti caratteristici abbastanza diversi, e ciò è significativo. Così, all’inizio, i vescovi diocesani godevano di una notevole autorità sulle fondazioni cistercensi. Ma tali privilegi episcopali, come ad esempio la visita canonica, l’approvazione dell’elezione abbaziale, poteri correttivi, il diritto di domandare il voto di obbedienza all’abate appena eletto, furono man mano ridotti fino ad una totale eliminazione; l’Ordine pervenne all’esenzione totale nei confronti della giurisdizione diocesana, grazie alla costante concessione di favori papali e di alti privilegi concessi all’Ordine. Similmente, all’inizio l’abate di Cîteaux godeva di un potere più grande, e le prime riunioni del Capitolo generale non sembravano consistere che in un capitolo allargato della casa madre o, di annuali “capitoli delle colpe” per abati. Ancora verso il 1135, l’Abate di Cîteaux appariva agli occhi di Orderico Vitale come il capo, ‘Tarchimandrita” degli altri 65 abati dell’Ordine. L’aumento progressivo del numero dei partecipanti portò ad un crescente aumento di autorità del Capitolo generale, sebbene il ruolo legislativo che assunse non divenne ffievante se non a partire dal 1180. La statura morale di un san Bernardo e di altre autorità messe a capo delle nuove fondazioni di Cîteaux portò a rendere sempre più grande l’influenza nascente dei “proto-abati” che, insieme, costituivano una specie di contrappeso nei confronti di un ambizioso abate di Cîteaux. Nessuno degli elementi che compongono la Carta di Carità, era, in sostanza, come del resto era avvenuto per la riforma cistercense in generale, completamente nuovo. Molto prima della fondazione di Cîteaux erano stati fatti degli sforzi per mantenere una uniforme disciplina monastica attraverso le visite regolari o le occasionali riunioni di abati, nel mondo monastico dell’undicesimo secolo. Queste tendenze erano già rilevabili in una riforma organizzata da Riccardo di St. Vanne (970-1046) nell’Est della Francia, e molto più rilevanti ancora nella congregazione di Vallombrosa, che Stefano Harding conosceva bene. Il fondatore di Vallombrosa, san Giovanni Gualberto, (990 ca. – 1073) aveva lasciato dietro a sé una specie di “vincolo di carità, in una compilazione di regole che dovevano essere seguite dalle sue fondazioni. Questa, garantiva una preminenza ai successori di Giovanni Gualberto come abati di Vallombrosa, stabiliva la riunione degli abati, dotata di estesi poteri legislativi, introduceva un sistema di visite regolari ed insisteva sul mantenimento di una disciplina uniforme, tutte caratteristiche della Carta di Carità Cistercense. Nel 1110, proprio poco tempo prima della primitiva stesura della Carta di Carità, un documento abbastanza simile venne composto per regolare il rapporto tra l’abbazia di Aulps e la sua prima fondazione, Balerne. Queste due case appartenevano alla congregazione di Molesme, e quindi collegate in qualche modo ai Cistercensi. Questo documento, chiamato “Concordia di Molesme”, fissava la visita regolare da parte della casa madre, l’assistenza mutua “per amore della carità” e alcune misure di revisione su entrambe le case da parte di Molesme. Nonostante il notevole prestito, mutuato da tali usanze, i Cistercensi riuscirono a saldare gli elementi della Carta di Carità in uno schema coerente, di rara perfezione, idealmente adatto al tessuto dell’ambiente sociale contemporaneo. La Carta di Carità rifletteva l’influenza della subordinazione feudale, basata sulla reciproca fedeltà e fiducia, che esigeva obbedienza pronta in tempo di crisi, ma rispettava l’autonomia locale. Invece di un tipo di relazione basato puramente su delle usanze o delle abitudini formali, la costituzione cistercense si radicava in una legge scritta, stesa con precisione e con cura. Sotto l’influenza del diritto romano, che ritornava alla luce con una crescente forza di autorità, la legislazione sia civile che ecclesiastica trovava una nuova rinascita, riscoprendo regolamenti tradizionali o abitudini arcaiche e primitive sotto l’autorità di leggi, statuti, carte e costituzioni. In particolare, il Capitolo generale, assemblea scelta e rappresentativa di stampo aristocratico, sviluppava di pari passo qualcosa di simile agli incipienti parlamenti feudali e alla rapida diffusione dei comuni italiani e francesi. La Carta di Carità giocò un ruolo determinante non solo per lo sviluppo della vita monastica cistercense, ma anche nella struttura costituzionale di altri ordini religiosi. Il Capitolo generale dei Premonstratensi seguì da vicino l’esempio e lo schema del modello cistercense perfino nell’assicurare un ruolo speciale ai loro primi tre “proto-abati”. Durante la prima metà del dodicesimo secolo, sotto l’influenza personale di san Bernardo, vennero introdotti Capitoli generali annuali nei Canonici Regolari di San Vittore, tra i Certosini, a Grandmont, tra i Gilbertini, nella Congregazione di Val-des-Choux, e in molti ordini militari e ospedalieri. Anche Cluny adottò questa importante istituzione ed invitò quattro abati cistercensi perché dessero una mano in materia di procedura. Vari altri ordini e congregazioni benedettine, in seguito, continuarono tale richiesta. Il quarto Concilio del Laterano (1215) rese obbligatori i Capitoli generali in tutte le congregazioni, monastiche che non li avevano ancora adottati e richiese che tali riunioni fossero controllate e verificate dai due abati cistercensi più vicini alla località dove si svolgevano. Fin dal principio, i Francescani e i Domenicani, appena fondati, introdussero l’istituzione dei Capitoli generali nelle proprie costituzioni. Come poteva la devozione iniziale per la Regola andare d’accordo con la legislazione e la struttura costituzionale che caratterizzò la seconda e la terza generazione? Realmente i Cistercensi erano così profondamente e sinceramente devoti all’osservanza esatta della Regola come pensavano i loro contemporanei ed essi stessi, forse, a volte pretendevano di essere? Probabilmente il Piccolo Esordio non è un riflesso accurato e imparziale degli inizi di Cîteaux, ma riflette chiaramente la mentalità della seconda generazione cistercense. Il suo autore insiste sul fatto che i fondatori di Cîteaux avevano preso la “purità e la rettitudine della regola come la norma di condotta del loro stile di vita” e avevano rifiutato usanze e abitudini che non si potevano ritrovare nella regola e che, di conseguenza, le giudicavano contrarie alla stessa. In modo più specifico, ripudiavano alcuni punti introdotti recentemente, sull’abbigliamento e il regime alimentare, come certe forme di possesso o fonti di lucro o di entrate di tipo medioevale che coinvolgevano i monasteri quali soggetti attivi e diretti nella vita sociale ed economica del tempo. Essi basavano tale rigetto nella intenzione apertamente dichiarata dei monaci di “restare estranei alle realtà del mondo”, per continuare ad essere “poveri con il Cristo povero”. Ma, secondo lo stesso testo, tuttavia, i Cistercensi incominciarono a chiedersi “in qual modo e con qual genere di occupazione o di lavoro essi avrebbero potuto provvedere a se stessi in questo mondo”. Essi risposero “acquistando proprietà terriere che restassero separate dai luoghi di abitazione degli uomini”, per loro uso esclusivo, coltivandole con l’aiuto dei fratelli conversi e di persone assunte temporaneamente, coscienti che senza un tale aiuto essi non avrebbero potuto adempiere in pienezza i precetti della Regola, giorno e notte. Come ulteriore giustificazione del ricorso ai fratelli conversi “essi decisero ancora che nel caso in cui si fossero erette delle fattorie o delle grange per la pratica dell’agricoltura, tali case sarebbero state affidate a dei fratelli conversi e non a dei monaci, dato che la residenza dei monaci, secondo la Regola, deve essere situata all’interno del monastero”. La prime poche righe di questo testo sembrano introdurre il fermo principio di interpretazione secondo cui ciò che non è contenuto nella Regola è contrario alla Regola e quindi deve essere rigettato. Solo poche righe dopo, tuttavia, l’autore ha evidentemente dimenticato questo principio ed approva l’istituzione dei fratelli conversi, una istituzione di grande importanza che era altrettanto estranea ai principi della Regola quanto il possesso, così riprovato, di altari e di titoli. Questa contraddizione apparente si risolve con facilità quando prendiamo coscienza che l’autore faceva riferimento alla Regola solo quando ciò gli serviva per giustificare gli ideali fondamentali di Cîteaux. Il motivo reale che soggiaceva ad entrambe queste due scelte, una proibizione e una innovazione, era l’ardente desiderio dei monaci di vivere in una solitudine indisturbata. Il possedere o l’amministrare delle proprietà nel sistema feudale avrebbe costretto i monaci a restare in un contatto continuo con la società laica e per questo motivo entrambe le realtà condizionanti furono rifiutate. D’altra parte, l’istituzione dei fratelli conversi venne adottata per il fatto che la coltivazione di terre molto estese, situate in località remote, avrebbe costretto i monaci ad allontanarsi dalla loro tanto amata solitudine del chiostro. Sebbene i novantadue paragrafi degli Statuti del Capitolo generale non possano essere analizzati in questa sede, alcune brevi osservazioni sulle loro caratteristiche più appariscenti potranno sostenere la nostra tesi. Le varie regole che si susseguono possono con difficoltà essere caratterizzate come semplici commenti o note di spiegazioni, aggiunte come postille ai vari capitoli della Regola. I molti emendamenti che concernevano la celebrazione annuale del Capitolo generale, o le visite regolari alle abbazie o l’amministrazione delle grange sono completamente al di fuori dell’ambito previsto dalla Regola. Un numero notevole di prescrizioni applicano in pratica i principi di povertà, semplicità e separazione dal mondo. In materia di alimentazione, abbigliamento, digiuno, astinenza e punizioni, gli Statuti entrano in molti dettagli e sono in gran misura più restrittivi della indulgente Regola di san Benedetto. La nota più sorprendente è l’allontanamento assoluto dei bambini dai recinti del monastero; una contraddizione aperta con una delle disposizioni più significative della Regola. La sua giustificazione è ovvia: la presenza dei bambini non può che disturbare l’atmosfera della solitudine monastica. Un problema a parte è costituito poi dalla insistenza così ripetuta nel secondo e terzo paragrafo degli Statuti non solo sull’assoluta uniformità da seguire in materia liturgica, ma anche sul principio che dovunque si dovrà avere lo stesso cibo, lo stesso abito e le stesse usanze in tutte le cose. Sebbene la Regola prevedesse diversità di clima, di circostanze ambientali e abitudini di luoghi diversi ed aprisse la possibilità di altre soluzioni o sistemazioni per l’Ufficio Divino, i Cistercensi furono inflessibili nella loro insistenza sul fatto che 1a Regola di san Benedetto deve essere interpretata e seguita da tutti allo stesso modo”. Come i principi stessi nella Carta di Carità potessero armonizzarsi con la Regola, è un altro interessante e affascinante problema. La possibilità di un controllo centrale sopra un certo numero di monasteri non solo è assente dalla Regola, ma sembra perfino totalmente estraneo alla mentalità del suo autore. Le forze esterne, effettivamente centralizzatrici, quali erano ad esempio il Capitolo generale e le visite regolari annuali, avrebbero inevitabilmente condotto alla diminuzione dell’autorità locale e dell’autonomia così chiaramente assicurata dalla Regola ad ogni Abate. I primi cistercensi non solo si mossero quindi con libertà nei confronti di una cieca devozione al testo letterale della Regola, ma di fatto essi si riferirono a quel venerabile documento della legislazione monastica con una notevole larghezza di spirito. Invocavano la Regola e la applicavano rigorosamente quando ciò corrispondeva ai fini che si proponevano; ma la ignoravano o la contraddicevano quando non poteva concordare con la loro concezione di vita monastica, così largamente basata sugli ideali delle riforme dell’undicesimo secolo. Nella vita dei primi anni di Cîteaux la Regola giocò indubbiamente un ruolo importante, ma restò sempre un ruolo strumentale; venne, utilizzata come un mezzo per conseguire lo scopo cui realmente si tendeva, la costituzione di una vita austera nella povertà, semplicità e in una indisturbata solitudine. |